domenica 8 aprile 2012

Aveva disegnato un occhio meraviglioso in un foglio appeso nell'atelier di Francesco... - Venerdì 06.04.12, parte prima.

La mattina dopo mi sarei alzato con una stella rossa timbrata sulla mano sinistra e qualche ora di sonno arretrato sulle palpebre. Ma era stata una serata bellissima e mi era venuta una voglia pazza di scriverci su qualcosa. Alle tre di notte mi ero messo seduto sul letto e avevo riempito di frasi sconnesse due o tre pagine di taccuino, fitte fitte: le parole mi sgorgavano come lava, sembrava che nel centro del mio cervello si fosse creata una voragine e tutte queste cose, queste parole, immagini bellissime uscissero fuori da un barile inesauribile di vino, sangue e vita. Da una ferita dell'anima mi veniva fuori tutto. E forse era perchè la mia anima era così, come una vecchia giovane ubriaca di vita che quando non ne poteva più vomitava via tutto, e il vomito o stavi lì a raccoglierlo o te lo perdevi per sempre. E quando te lo perdevi, beh, potevi frignare per l'eternità: era perso. Quindi io raccoglievo, la cosa era troppo buona e la vita troppo preziosa per non raccogliere. Tutto quello scrivere, era la mia sigaretta accesa dopo l'amore e dopo il "T'è piaciuto?, Sì".
Si era detto una pizza dopo l'aperitivo alle otto, otto e mezza. Ero arrivato con un certo anticipo perchè sapevo che c'erano delle ragazze e le ragazze odiano aspettare. Non ricordo se avevo messo il profumo buono nuovo, ma ero arrivato con anticipo per non fare la solita figura da trasandato scrittore di romanzi erotici alla Apollinaire quando era un giovane squattrinato della gioventù squattrinata francese. Non mi era servito a molto, va detto, e molti metterebbero qui una parola diversa anche piuttosto a ragione, perchè Moreno si era dimenticato la patente a Padova e mi aveva chiesto via telefono se potevo passare a prenderlo in auto, se no non poteva venire. Fu così che mi bruciai l'anticipo sull'asfalto della strada fino a casa di Moreno. A quel punto non pensai più al profumo e mi accontentai di arrivare per la pizza subito dopo l'aperitivo, ma mi sentivo felice di andare a prendere un amico in macchina perchè così mi sentivo sempre quando ero sulla strada dopo aver letto Jack. Al ritorno beccammo una processione alla fine della Maranese e quando vidi che era troppo lunga per aspettarla lì fermi mentre gli altri già forse mangiavano la pizza, me ne fregai definitivamente del profumo e feci inversione e poi alla rotonda mi infilai sulla destra per raggiungere il punto in cui dovevamo vederci.
In pizzeria non c'erano, erano ancora al bar. Li trovammo lì, Francesco e le altre due ragazze, che sorseggiavano qualcosa che mi sembrò uno spritz. Mi presentai anche se una l'avevo già vista alla mia laurea, mia e di Francesco. Non so se erano le gambe lunghe di Martina, ma mi sentii arrossire. Ma non credo, non potevano essere le gambe lunghe, perchè non mi era mai capitato di arrossire per quello prima di allora e non potevo certo cominciare allora. Sarà stata la vita che mi sgorgava dentro che nemmeno me ne accorgevo, fatto sta che io ero davvero calmissimo e non arrossivo per quello; forse nessuno mi vedeva arrossire, ma io mi sentivo le guance calde ed ero calmissimo. Strana sensazione.
L'altra si chiamava Lorenza.
Gli altri ci raggiunsero in pizzeria. In pizzeria entrammo io, Moreno, Francesco, Martina e Lorenza, più Marco, che era un tipo singolare con la barba lunga da filosofo e il vestito elegante. Mi sembra lo abbia giustificato con qualcosa del tipo che in certi posti si va vestiti eleganti, ma era sull'ironico e dopo una risata non pensai più al senso preciso di quelle parole per il resto della serata.
In pizzeria vennero anche Erica e un'altra ragazza di cui ancora non conosco il nome; aveva appena concluso gli allenamenti di pallavolo ed era molto stanca. Potrebbe anche essere che non abbia mangiato niente.
Era la pizza degli artisti di Marano, una pizza ufficiosa perchè l'ufficiale non si sapeva nemmeno quando e dove l'avrebbero fatta, o almeno io non lo sapevo; e in ogni caso era già divertente così, quindi non pensai più nemmeno a quello.
Era tutta gente interessante, quella seduta a quel tavolo, anche se noi amici imbucati eravamo più degli artisti. Francesco e Erica erano gli artisti, e pure Marco lo era. Erica aveva disegnato un occhio meraviglioso in un foglio appeso nell'atelier di Francesco, uno solo, e mi era rimasto impresso più di tutti i suoi quadri che pure mi erano piaciuti moltissimo, perchè era uno e non era previsto che venisse fuori bello quasi come un quadro e quindi era più spontaneo di tutte le opere d'arte di quella giornata che invece erano state pensate e previste. E poi, ancora, era uno e questo lo rendeva meraviglioso. Anche lei aveva degli occhi molto belli, ma quello che aveva disegnato era bellissimo e aveva fatto bene a non disegnare l'altro. Anch'io avevo scritto qualcosa in quel foglio, ma le mie erano idiozie da incartarci il pesce o la spazzatura umida, in confronto a quell'occhio, che era occhio d'arte venuto dal nulla.
Lorenza era imbucata anche lei. Le ho chiesto qualche volta che università frequentava. Mi ha detto di essere pendolare da Venezia: una volta stava lì che aveva l'appartamento, ma ora non più. Le ho detto che era eroica, o almeno l'ho pensato.
Martina aveva orgnizzato tutto e aveva detto di portare gli amici. E infatti noi eravamo venuti. L'anno prima aveva partecipato anche lei alla mostra d'arte di Marano. Fotografava e Francesco mi aveva già parlato di una sua foto in cui si vedeva la gente riflessa in una pozzanghera. So che scrive anche poesie e che i suoi occhi sembrano scrutarti dentro quando ti guarda e ti si avvicina al volto per parlarti, soprattutto se c'è la musica alta attorno. Ma nella pizzeria la musica non c'era. Ma forse i poeti fotografi sono sempre al lavoro, soprattutto se sono poetesse.
Parlammo di arte, ricordo un discorso sulla prospettiva e sulla sua falsità, sulla percezione visiva del mondo visto con gli occhi di un pittore.
A un certo punto Marco mi chiese se mi piaceva scrivere, se scrivevo. Quando avevo detto che studiavo giornalismo Lorenza era rimasta sorpresa e affascinata, il che mi aveva fatto piacere. Capita a molti; i giornalisti di solito hanno fascino fino a che non scannano qualcuno o non scrivono piattume, come capita a molti. Hemingway aveva fatto il giornalista, ma non tutti i giornalisti sono degli Hemingway. In ogni caso tutti finiscono a far da base per la spazzatura, e i loro articoli ormai letti li vedi sempre tra le bucce di banana e di patate marce, lettiera per i topi. Va così.
Risposi che mi vedevo a scrivere romanzi. No, Dostoevskij non aveva mai scritto poesie, almeno che io sapessi. Sì, quell'altro invece aveva scritto poesie, anche se non ricordo più chi fosse quell'altro. Ma dai? No, io invece mi vedo solo a scrivere racconti, un giorno forse romanzi. In più, articoli. Sì, articoli per i topi.
Marco aveva un dito storto, lo avevo notato stringendogli la mano all'inizio.
Dopo la pizza andammo in un locale nuovo, si chiamava "La Caneva". Un locale di Torrebelvicino, subito dopo Schio. Il giorno dopo mi sarei ricordato che gl abitanti di Torre si chiamano Turritani. Ma era troppo tardi e saperlo non mi serviva più a nulla. D'altronde non mi sarebbe servito nemmeno il giorno prima, nè forse mai.

domenica 25 marzo 2012

Miei brevi pensieri da Facebook.

Chi non esce mai di casa; chi segue la vita da un divano. Chi non ha mai preso un treno; chi evita di dar retta ad un migrante. Chi non ha mai preso una cartina geografica in mano e non si è messo a fantasticare: per poi accorgersi che era storta. Chi non ha mai vissuto un sogno infranto. Chi non si sente figlio dell'Africa; chi non si è mai sentito baciare le labbra mentre pronunciava la parola "Mediterraneo". Chi non ha visto la sua vita prendere il colore degli occhi di una ragazza. Chi ha sempre pensato che la letteratura si potesse impararla dai manuali; chi non ha mai letto Jack London. Ecco, tutte queste persone sono in debito con la vita: non l'hanno vissuta abbastanza. (19.03.12, 23.37)

Schio, ore due del mattino circa. Conto quattro ubriachi, forse cinque, perdersi nelle vie deserte e scure.
Al "Leoncino" il barista paziente accompagna fuori un ragazzo dal naso da pugile: goffo, tenta di ballare una musica che l'alcool gli impedisce di capire.
Nell'odore di kebab di via Pasini due quarantenni dalla pelle solcata operaia si danno a un'esplorazione zigzagante dei grandi misteri di un paese improvvisamente nuovo: "E qua cosa c'è?" biascica uno con le narici piene di fumi orientali. Si fermano, ma poi decidono di vedere dove li condurrà la strada: ci chiedono permesso e si allontanano sempre più piccoli fino a sparire dietro l'angolo, abbracciati fratelli chapliniani, verso la stazione. Là dentro, al kebabbaro, un ragazzo si lascia andare sul tavolo coperto dalla sua giacca avana.
L'ultimo ubriaco, in "piassa dea figa", proprio accanto alla figa. Ci chiede da accendere, la ragazza che è con lui cerca di portarselo via con parole dolci. Uno di noi gli dà divertito e lui ringrazia.
Guardando attraverso la "Porta della luce" li vediamo tornare nel buio materno. (18.03.12, 12.38)

"El degheio": l'ultima sera del "Leoncino" di Schio. Mini reportage.

"Doman de sera ghe sarà el degheio!", che tradotto dal veneto significava che la sera successiva ci sarebbe stato un casino (di gente). Lo diceva con facile spirito profetico una ragazza che venerdì sera sostava insieme a molti altri in Piazzetta Garibaldi, proprio di fronte al "Leoncino". La voce correva da tempo, anche sui social networks, poi era arrivata l'ufficialità: uno dei bar più amati dai ragazzi scledensi avrebbe chiuso sabato 24 marzo. Una pagina Facebook raccoglieva un paio di giorni prima 800 adesioni all'evento. E in piazza, vi posso assicurare, il "degheio" c'era.
Se come si vocifera i problemi del "Leoncino" erano gli schiamazzi notturni che sembra infastidissero gli abitanti del centralissimo quartiere, la serata di ieri per questi dev'essere stata un inferno. Arrivando dal Duomo o da via Pasini il colpo d'occhio era inevitabile: decine di gruppi di ragazzi e ragazze, chi con una sigaretta, chi con uno spritz in mano, occupavano metà piazza. Tutti erano lì a divertirsi un'ultima volta con il Bar. Provo a entrare. Al bancone ci si arrivava a fatica in qualche minuto, facendosi largo a gomitate. Lì scopro che è finita la birra: qualcuno rimedia con un buon bicchiere di rosso. Non provo nemmeno ad arrivare fino in fondo, alla sala dei tavolini e del biliardo, c'è troppa gente. Esco. Passo davanti all'ubriaco dal naso da pugile di cui avevo scritto qualche giorno fa. E' sobrio, ma è già rosso e chiede da bere; c'è troppa gente, i camerieri non lo sentono e allora lui fa il gesto della bottiglia tracannata. Me lo lascio alle spalle sicuro di come andrà a finire la sua serata.
Sarà mezzanotte, dai piani alti del vecchio palazzo c'è chi fotografa la folla per portarsi a casa un pezzo di serata: la serata dell'addio. Cammino tra nuvolette di fumo Camel e Lucky Strike, su plastica e vetro, bicchieri e bottiglie rotte. Saluto una mia amica, la riconosco dai riccioli perchè la folla è grande. La perdo in un attimo. Mi volto prima di andarmene, un'ultima occhiata. Il gestore del bar, con la sua barba folta, porta divertito in spalla una ragazza dalle cosce tatuate: "Un urlo per il Leoncino!". Parte un applauso, non si sa più come rimetterla a terra.
Guardo un'ultima volta la scritta sull'entrata: "Leoncino Ristorante".
Mi allontano un po' più solo di prima.

mercoledì 7 dicembre 2011

Kovrin: la solitudine di un uomo felice.

"Ancora una volta Kovrin era convinto di essere un eletto dal Signore e un genio, gli vennero in mente tutti i discorsi che aveva fatto in passato col monaco, voleva parlare, ma il sangue gli affiorò sulla bocca e si sparse sul petto; senza pensarci Kovrin passò le mani sul petto e la camicia gli si sporcò di sangue. Voleva chiamare Varvara Nikolaevna che stava dormendo, ma pronunciò solo: - Tanja. - Cadde, puntò le mani e ripeté: - Tanja."
E' così che muore, sotto la penna di Antòn Cechov, il professor Andrej Vasilevic Kovrin: in un balcone, divorato dalla tisi, col nome della ex moglie sulle labbra.
Andrej Vasilevic, due anni prima di morire in questo modo, era un genio. "Oh no, è la mia ragione di vita", diceva a chi gli chiedesse se non si fosse per caso stancato della filosofia e delle lunghe ore che passava ogni giorno tra i suoi amati libri. Era ben voluto, stimato da tutti proprio in virtù di questa sua genialità. In particolare viveva circondato dall'affetto di due persone a lui care, che per lui, giovane orfano, avevano costituito per anni la sua famiglia: Tanja, una ragazza più giovane di lui, e il padre di Tanja, Egor Samenyc.
Egor Samenyc è un bonaccione, uno di quei simpatici vecchietti della consistenza del pane e del sapore del miele, che ha due sole grandi preoccupazioni nella vita: la figlia Tanja e gli alberi del suo giardino, uno dei più belli, noti e ricchi di tutta la Russia. E' anche lui una penna nota nel suo settore, quello della teoria del giardinaggio. Sostando per qualche tempo a casa sua, in campagna, Kovrin ha la possibilità di leggere qualcuno dei suoi libri: sono trattati polemici, di una certa forza, di una certa intensità, ma sostanzialmente dei trattati tecnici che non potrebbero mai interssare chi non sia del settore. Tanto che lo stesso Kovrin, di ben altri interessi, li abbandona dopo appena qualche pagina. Ma non importa, lo sa anche il buon vecchio Samenyc che i suoi scritti sono robaccia in confronto a quelli, filosofici, del ragazzo.
La vita così, in quella dimora di campagna, procede tranquilla, tra musica, passeggiate nel giardino e latte da bere. Kovrin si innamora di Tanja e i due si sposano, col beneplacito del padre di lei. Sono fatti l'uno per l'altra, e la stessa Tanja aveva intuito da tempo immemore che prima o poi si sarebbero sposati; senza saperlo se lo sentiva. Intuito femminile.
I problemi arrivano quando una leggenda, quella del monaco nero, si avvera. Era successo per la prima volta poco prima che Kovrin si scoprisse innamorato di Tanja. Era tutto il giorno che aveva in testa questa leggenda, che non sapeva se l'avesse appresa da qualche libro o se gliel'avessero invece raccontata. Ce l'aveva così in testa che non aveva saputo resistere e l'aveva raccontata alla ragazza, che da brava adolescente ne era rimasta anche affascinata: il riflesso di un monaco nero che, in barba ad ogni legge ottica, si riflette per tutto il mondo. Non è forse precisamente un monaco, è un viandante, perchè la leggenda dice che è in cammino; ma sembra un monaco, un monaco nero, perchè è vestito di nero.
"Sei un miraggio" dice Kovrin al monaco nero, quando gli si manifesta la prima volta.
"Pensa quello che vuoi - è la risposta - io faccio parte della tua immaginazione e la tua immaginazione è parte della natura, quindi esisto nella natura".
Kovrin è un filosofo, non uno stupido. Sa che se racconterebbe agli altri di poter parlare col monaco della leggenda, nessuno gli crederebbe. E così tace. Ma i discorsi col monaco si fanno sempre più assidui, sempre più filosofici, semre più belli e interessanti.
Kovrin quando parla col monaco è felice. E' felice e lavora, legge, studia. "Mi sembra terribilmente strano che sia felice la mattina, la sera, e che la gioia ottunda tutti gli altri sentimenti - dirà una notte proprio al monaco - Non so cosa sia la tristezza, la noia, non dormo, ma non mi annoio. Dico sul serio: mi stupisco".
Ecco dunque il primo prezzo della felicità di Kovrin: una felicità eterna. Essere un uomo innaturalmente destinato ad un solo sentimento, che per assurdo è il più desiderato da tutti: la felicità. Kovrin è felice perchè tutto attorno a lui è filosofia, la sua passione. La filosofia non è solo la sua ragione di vita, la filosofia è la sua vita. E i momenti più felici della sua vita sono quelli in cui parla di filosofia col monaco, ovvero con se stesso. Sono quei momenti il cardine della sua vita e della sua felicità; se è felice anche con gli altri, in altri momenti e se glia altri anche loro sono felici, questo è solo un riflesso. Un riflesso come lo è il monaco. Il mondo è felice perchè Kovrin è felice.
Ma un giorno gli altri si accorgono che parla col monaco, quindi con nessuno, e lo prendono per pazzo. Il lettore, con Kovrin, sa per la prima volta che Tanja e suo padre avevano già avuto sentore di questa sua pazzia: "Avevo notato da tempo che c'è qualcosa che sconvolge la tua mente. Sei malato, Andrjusa, nello spirito...".
Ma come, tutta la felicità di Kovrin e del mondo con lui? Era tutta fasulla, inesistente. Almeno in parte. E' con questa frase di Tanja, detta quasi per caso, inserita da Cechov quasi clandestina, che ci rendiamo conto di aver assistito fino a quel momento a qualcosa di simile a una recita. Non è vero, come vedevamo noi che vediamo con gli occhi del filosofo Kovrin, che tutti erano felici. Kovrin, immerso nella sua bolla di felicità, sta rimanendo solo, e non si accorge, chiuso nel suo studio tra i suoi libri e le sue teorie, che il mondo prende le distanze da lui, che il mondo comincia a considerarlo pazzo. Come non si accorge del giardino che non è più florido come un tempo e che dà ormai i suoi grattacapi, così non si accorge dell'alone di pazzia che lo sta circondando e che lo porterà alla rovina. Il lettore tenga sempre presente lo stato del giardino di papà Samenyc: come quei gingilli che cambiano colore quando cambia il tempo, così il giardino serve a Checov per predire lo stato, i cambiamenti, di Kovrin. E il giardino, tanto bello e prospero all'inizio, non fa che deperire nel corso del racconto: come Kovrin.
Con le cure mediche per farlo rinsavire, il monaco scompare e con il monaco anche la genialità del ragazzo. E' un effetto domino. Kovrin non è più felice e nessuno è più felice. Kovrin ora è nel mondo, vede il mondo da uomo, non più da filosofo, e il mondo improvvisamente non gli piace più. Il matrimonio va a rotoli, i rapporti umani si logorano, il giardino va in malora.
Quando lo ritroviamo, poco prima che muoia, Kovrin è ormai un normalissimo professore col vizio del pensiero, ma privo di ogni antica genialità. E di chi è la colpa? Lui la attribuisce agli altri, che l'hanno voluto curare, ma gli altri in fondo hanno agito per il suo bene, tanto che ora dicono che il colpevole di tutto è solo lui. Lui e basta.
"Per esempio, per avere una cattedra a quarant'anni, essere un professore, noioso, pedante, in breve per poter essere un mediocre scienziato, aveva dovuto dedicare quindici anni della sua vita allo studio, giorno e notte, sopportare il dolore di una grave malattia, avere un matrimonio sbagliato e fare tante altre meschinità e sciocchezze. Kovrin si convinse della sua mediocrità, ed era soddisfatto, perchè ogni uomo deve accontentarsi di quello che è".
Questo è l'ultimo, irriconoscibile, Kovrin. Sposato ormai a una donna che per chi legge è solo un nome, niente di più: Varvara Nikolaevna. Nulla a che vedere con la giovane Tanja, semplice quanto si voglia, ma con un suo carattere. E questo perchè anche le due donne sono lo specchio di Kovrin: la spontaneità di Tanja per il Kovrin felice, l'anonimato del nome di Varvara per il Kovrin infelice.
E sarà dunque vedendo il monaco per l'utima volta, sentendo la musica che gli ricorda Tanja e invocando il nome della ragazza; insomma, ritornando per un attimo, un illusorio attimo, l'uomo felice di qualche anno prima, che il nostro morirà. Morirà, circondato però dalla lettera accusatoria di Tanja, che gli imputa la morte del padre e il deperimento del giardino, nonchè l'infelicità sua e di tutti.
"Maledetto - gli scrive - Ti credevo un genio, straordinario, originale, ti ho amato, ma non eri altri che un folle..." Una lettera che, significativamente, Kovrin non finisce, strappa e getta dal balcone, ma che il vento gli riporta indietro e sparge tutta intorno.
Perchè l'ultimo, illusorio, attimo di felicità di Kovrin, è l'ultimo miraggio di un passato che torna per ucciderlo e di cui non può liberarsi.

Antòn Cechov, Il monaco nero, in Racconti, Orsa Maggiore Editrice, Forlì, 1993, pp. 221-256.

martedì 6 dicembre 2011

La mia rivoluzione sarà guardare fuori dalla finestra.

E poi arriva il momento in cui gli si illuminano gli occhi. Arriva, per forza, prima o poi arriva. Il momento in cui gli si illuminano gli occhi, le labbra si stringono come cesoie per soffocare un sorriso, gli angoli della bocca impercettibilmente tirati. Abbassa lo sguardo, dapprima. Poi non riesce più a trattenersi e allora te lo sbatte lì, il tuo interlocutore che fino a qualche minuto prima ti guardava interessato, che fino a pochi istanti prima immaginavi tuo complice di intime speranze.
"Cosa vuoi fare, il rivoluzionario?! Non cambierai il mondo, fidati!"
E lì finisce tutto con una manata sulla spalla e considerazioni sulla tua età che ti fa pensare queste cose. Segno che se fossi più maturo, no, questi pensieri non attraverserebbero mai la tua mente, nemmeno per sbaglio. Se ne starebbero alla larga.
"Vedrai, appena trovi un lavoro e dovrai pensare allo stipendio..."
"Vedrai, trovati una donna, metti su famiglia e poi mi sai dire..."
E io puntualmente, quando ritorno sui miei passi, guardo l'asfalto che mi scorre sotto gli occhi, l'asfalto grigio dei marciapiedi e delle strade, con le sue imperfezioni, e mi domando perchè.
Perchè si dà per scontato che la voglia di cambiamento sia diversamente proporzionale all'età che ti scorre nelle vene, che ti crepa le ossa, che ti offusca gli occhi?
Perchè?
Perchè sperare nel cambiamento così da farne il proprio obiettivo non è mai una cosa da prendere sul serio?
Perchè ci si deve stancare, prima o poi?
Perchè uno è rivoluzionario solo se abbraccia un fucile? Io non voglio nemmeno un pugnale!
Mi avete detto che se uno scrive, se uno vuole campare di scrittura, è un sognatore.
"Il mio più grande problema - diceva Robert Louis Stevenson, l'autore dell'"Isola del tesoro" e "Lo strano caso del Dr. Jeckyll e di Mr. Hide" - è spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando".
Bene, io voglio guardare per tutta la vita fuori da quella finestra. Io voglio vedere il mondo che ci scorre dietro quella finestra, io voglio vedere il mondo che ci soffre dietro quella finestra, che ci ride, che ci vive, che ci muore dietro quella finestra.
Io voglio raccontare di quel mondo, è di questo che voglio vivere.
E guardare, vedere, osservare, capire, raccontare, questo sì che è rivoluzionario. Perchè con le armi si possono rovesciare tutti i pranzi di gala che vogliamo, ma fare la rivoluzione è un'altra cosa.
"Abbiamo fatto la rivoluzione, comandante!" disse un soldato in quel di Santa Clara.
"No - rispose il comandante - abbiamo vinto una guerra. Ora dobbiamo fare la rivoluzione".
E allora, mettetevelo bene in testa. Io voglio fare il rivoluzionario. Io voglio scrivere, e scrivere è rivoluzionario.
La mia rivoluzione sarà il giornalismo.
Forse non ci riuscirò, forse fallirò.
Forse avrete ragione voi, interlocutori miei: che mi credevo di fare, il rivoluzionario?!
Ma allora potrò guardarmi indietro e pensare di non avercela fatta.
Io voglio potermi guardare indietro e pensare di non avercela fatta; non voglio guardarmi indietro e pensare di non averci provato.

Alessandro Pagano Dritto,
06.12.11.

mercoledì 23 novembre 2011

Addio, Mr Bad Guy!

 
Farroch Bulsara "Freddie Mercury" 
(Stone Town, Zanzibar, 05.09.1946 - Londra, Inghilterra, 24.11.1991)
Domani sono vent'anni che non c'è più. Vent'anni che la sua voce dalle mille sfumature, ora acuta e tagliente ora grintosa e vibrante, non ci delizia più. Ma sono vent'anni e anche più che "Mr. Bad Guy" si è conquistato l'immortalità; l'immortalità quella vera, quella dei milioni di cuori che ancora in tutto il mondo lo ascoltano e battono al ritmo delle sue canzoni, che sobbalzano di emozione ad ogni suo acuto, che si rallegrano quando lui chiede loro di rallegrarsi e si rattristano quando invece suggerisce loro tristezza. Non ricordo la prima volta che lo sentii nominare, ma ricordo che le mie idee erano confuse. Eravamo in chiesa, prima che iniziasse la messa, quando io e mio cugino Giovanni ci trovammo a parlare dei Queen. Non sapevo se Freddie facesse parte o no della band, che allora conoscevo più per fama che per altro. Si gira una signora seduta di fronte a noi, che pareva volesse rimproverare le nostre chiacchiere profane. C'avrà avuto sui quarant'anni, noi una quindicina a farla grossa: "Certo che Freddie è dei Queen! Era il mio cantante preferito!". Non mi sono mai tolto dalla testa che l'arzilla signora avesse colto l'occasione anche per zittirci, ma tant'è: fu così che inquadrai definitivamente la figura di quello che sarebbe diventato l'idolo incontrastato della mia infanzia e che sarebbe presto finito in un poster gigante in un muro della mia stanza. Eccolo, è lì, ce l'ho di fronte, lo guardo: quei tratti marcati, decisi, quella grinta che scaturisce intatta anche dal fermo immagine di un fotografia, quel microfono come solo lui lo portava, cioè con tutta l'asta, quel pugno a tenerne il filo. Ma niente, non c'è descrizione che possa veramente darne un'idea: bisogna vederlo nei dvd dei concerti, sentirlo nei cd dei Queen. Tutto il resto è inutile, non ne vale la pena. Non esiste cantante di qualsiasi epoca che abbia saputo regnare come lui su un palco. E poi invece te lo vedi lì, nelle interviste, che sorride sornione sotto i baffi, come ridono i timidi quando si accorgono di essere stati colti nel bel mezzo della loro inevitabile timidezza. Era questa doppia valenza ad avvicinare Freddie ai nostri cuori: quando saliva sul palco era ciò che anche noi avremmo voluto essere, quando invece scendeva ciò che tutti eravamo. Era un essere umano, un genio tutto umano. Sapeva esprimere nei suoi testi e nella sua voce, complice anche il talento degli altri della band, l'animo e le sensazioni di tutti. Nei tuoi testi scorreva la tua vita, le tue canzoni non si capiscono senza conoscerti. Si dovrebbero citare tutti i tuoi versi, dannazione, e sono troppi e troppo belli! E allora ti rinfaccio solo una cosa, quello che tu ci avevi detto in una delle tue canzoni più intense e che non hai mantenuto, bugiardo che sei! Questa: "You won't remember / When this is blown over / And everything's all by the way / When I get older / I will be there at your side to remind you / How I still love you - still love you". Ci avevi promesso che saresti rimasto con noi e invecchiato con noi, che ci avresti sempre detto quanto ci amavi, che eravamo l'amore della tua vita e ce lo facevi cantare ogni volta - appuntamento fisso ai tuoi concerti. E invece ora siamo qui a piangerti e ogni anno scopriamo che non sei riuscito a mantenere la promessa. Ma d'altronde, ce l'hai detto tu stesso: "I'f I'm not back again this time tomorrow / Carry on, carry on, as if nothing really matters". Andiamo avanti, allora, come vuoi. Ma è sempre più difficile, e non credo che riusciremo a far finta che niente sia stato. A te, Freddie. Alessandro. 
Alessandro Pagano Dritto
23.11.11